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Nekdo je rekel-Qualcuno ha detto

NEKDO JE REKEL-QUALCUNO HA DETTO

Moj ples ni prav nič kulturna stvar.

Jaz plešem na robu,

kjer me še lahko vidiš,

tam, kjer se zgodijo stvari.

Med verzi puščam veliko prostora,

ker vem, da veš, da vem,

da znaš čakati

Včasih se spotikam,

ko sledim odmevom

v igri dima in ogledal.

QUALCUNO HA DETTO

La mia danza non è un fatto culturale

Io danzo di lato

Lì dove mi vedi ancora

Lì dove accadono cose

Lascio molto spazio di tra i versi

Perché so che tu sai che io so

Che tu sai attendere

Certe volte inciampo

Quando seguo gli echi

Nel gioco del fumo e degli specchi

Ma vado avanti

Si specchia l’autunno nella primavera

Nel surriscaldamento della gente, delle lampadine

Nel termometro stordito

Nel dondolio

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Canto d’aprile

Poesia di Renzo Pezzani
Canto d’aprile

C’è fra i rovi, ieri non c’era,
l’erba che trema come un verde fuoco,
l’ha perduta per gioco
la giovane primavera.
La pecorella vestita di lana
ora strappa le tenere foglie,
e per ogni ciuffo che coglie
batte un tocco di campana.
A quel suono fiorisce il pesco,
si schiudono le finestrelle,
e le rondini col cuore fresco
giungono dalle stelle.
L’acqua chioccia nella peschiera
rotonda come una secchia,
e l’allodola dentro vi specchia
il suo canto di primavera.

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Poesia di Leonardo Sinisgalli

FIUMI COME SPECCHI

I fiumi come gli specchi
sono intercomunicanti.
Agri Olona Verde Aniene
si mescolano al Livenza,
confondono le acque
della mia esistenza.

(da Mosche in bottiglia, Mondadori, 1975)

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Leonardo Sinisgalli, tenendo certamente presente la celebre I fiumi di Ungaretti, accomuna tutte le fasi della sua esistenza enumerando i suoi fiumi: l’Agri della natia Lucania, l’Olona del suo lungo soggiorno milanese, il Garigliano dei tempi della scuola, citato con il suo nome antico, l’Aniene dei viaggi compiuti mentre lavorava con la Società del Linoleum, il Livenza delle vacanze estive a Lignano Pineta. Tutti i fiumi, tutte le epoche della vita, si mescolano a formare ciò he in quel momento è il poeta.

(da Mosche in bottiglia, Mondadori, 1975)

Leonardo Rocco Antonio Maria Sinisgalli è stato un poeta, saggista e critico d’arte italiano. È noto come Il poeta ingegnere o Il poeta delle due muse, per il fatto che in tutte le sue opere ha sempre fatto convivere cultura umanistica e cultura scientifica. Wikipedia

dal canto delle sirene blogspot

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INVERNO

Inverno, gracili sogni
Sfioriscono sugli origlieri,
Giardini lontani fra nebbie
Nella pianura che sfuma
In mezzo alle luci dell’alba,
Voci come in un ricordo
D’infanzia, prigioniere del gelo,
S’allontanano verso la campagna;
Ninfe dagli occhi dolci e chiari
Fra gli alberi spogli, sotto il cielo grigio,
Cacciatori che attraversano un ruscello,
Mentre uno stormo d’uccelli s’alza a volo.

Là in fondo quella casa
Che ospitale appare
Coperta di bianco,
In un silenzio da fiaba.
E attraverso i vetri
Si vede la fiamma rossa
Nel caminetto vacillare.

I treni arrivano,
è domenica, è Natale?
Più non scende lieve
Sulla terra la neve.

(da Lettere da casa, 1950)

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Un’altra cartolina invernale arriva da Attilio Bertolucci (1911-2000): un viaggio in treno nella nebbia della campagna padana mentre l’alba stenta a illuminare il paesaggio e contemporaneamente si schiude il cassetto delle memorie, il paradiso dell’infanzia screziato ormai da toni fiabeschi si materializza nella nebbia, sparge neve a piene mani, fa affiorare una casa immersa nel bianco dove ardeva la fiamma del camino, tanto tempo fa…

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Gauguin
PAUL GAUGUIN, “NEVE A VAUGIRARD”

https://cantosirene.blogspot.com/2015/01/inverno-gracili-sogni.html

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Recensione di @CasaLettori: “La marescialla” Zora del Buono Keller Editore — CasaLettori

In breve Titolo: “La marescialla”    Autore: Zora del Buono Casa Editrice: Keller Editore  Collana: Passi Anno di pubblicazione: 2022 Recensione   “I segreti andrebbero lasciati al loro posto: nel regno del silenzio.” … 482 altre parole

Recensione di @CasaLettori: “La marescialla” Zora del Buono Keller Editore — CasaLettori
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Sere di inverno

Sere di inverno al mio paese antico,
dove piomba il falchetto dentro i pozzi
d’aria, tra l’uno e l’altro campanile.
Sere rapite a un’onda di sambuchi
invisibili, ai vetri dei muretti
d’ultimo sole accesi, dove indugia
non so che gusto d’embrici e di neve.
Vorrei cogliervi tutte, o mie nel tempo
ebbre, sfogliate voci lungo l’arida
corona dell’inverno,
e ricomporvi in musica, parole
sopra uno stelo eterno

(da Le acque del sabato, Mondadori, 1954)

Che altro dire di Maria Lusia Spaziani, la poetessa italiana di cui ricorre oggi il centenario della nascita? Dal lungo elenco di testi pubblicati sul Canto delle Sirene, si può evincere che sia tra le mie predilette. Va ben oltre l’essere stata allieva di Montale e amica e musa: certo, ne subì l’ascendenza poetica, ma applicandola alle sue trasposizioni di dati oggettivi e autobiografici e aggiungendovi la frequentazione della letteratura francese. La sua idea di poesia? Lasciamo parlare lei stessa – da un’intervista del 2003: “La poesia svolge un ruolo analogo a quello della preghiera: un momento di solitudine con se stessi, con lo sguardo proiettato oltre la quotidianità, che ha bisogno di un luogo (la chiesa) dove sussiste una delimitazione spazio-temporale rispetto al quotidiano. Con la poesia succede la stessa cosa. La poesia è contemplazione. Anche se ci si riferisce a oggetti concreti, si tende a creare un alone di solitudine intorno alle cose che si stanno guardando”.

.da Canto delle sirene

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MENTRE IL SILENZIO FASCIAVA LA TERRA

DAVID MARIA TUROLDO

Presepe di bratee di pannocchie

Mentre il silenzio fasciava la terra
e la notte era a metà del suo corso,
tu sei disceso, o Verbo di Dio,
in solitudine e più alto silenzio.

La creazione ti grida in silenzio,
la profezia da sempre ti annuncia,
ma il mistero ha ora una voce,
al tuo vagito il silenzio è più fondo.

E pure noi facciamo silenzio,
più che parole il silenzio lo canti,
il cuore ascolti quest’unico Verbo
che ora parla con voce di uomo.

A te, Gesù, meraviglia del mondo,
Dio che vivi nel cuore dell’uomo,
Dio nascosto in carne mortale,
a te l’amore che canta in silenzio
.

https://cantosirene.blogspot.com/search/label/poesia%20italiana

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“Il giorno in cui finì l’estate” di Sebastijan Pregelj

Per i tipi di Bottega Errante (BEE) di Udine è appena uscito, in traduzione italiana di Michele Obit, il romanzo “Il giorno in cui finì l’estate” (Premio Ivan Cankar 2020) di Sebastijan Pregelj. Ne pubblichiamo il Capitolo 8. / Pri videmski založbi Bottega Errante je pravkar izšel roman Sebastijana Preglja V Elvisovi sobi v italijanskem prevodu Mihe Obita kot Il giorno in cui finì l’estate. Leta 2020 je prejel Cankarjevo nagrado. Objavljamo 8. poglavje.


Il nostro Tito è morto, c’è scritto sulla lavagna quando il lunedì mattina entro in classe. So già tutto. Mamma e papà mi hanno raccontato. Mi hanno raccontato in modo che capissi, poi ho dovuto ripetere alcune cose con loro. «Perché tu possa ricordare» ha detto papà, «e perché non ti lasci scappare qualche idiozia».

Domenica pomeriggio, sul tardi, sono arrivati lo zio, la zia e Martin. Con Martin siamo rimasti quasi sempre nella mia stanza. Quando siamo usciti, gli adulti si sono zittiti.

«Ci guardano come se avessimo fatto qualcosa di sbagliato» ha detto Martin. «Forse perché è morto Tito. Che ne so. Non è che sia colpa nostra».

«Certo che no» ho assentito, e con Superman nella mano destra ho preso a correre per la stanza, mentre Martin sul pavimento muoveva il robot di plastica che aveva ricevuto dall’Italia. «Questo è Droid» mi istruiva. «Droid di Guerre stellari. Hai visto Guerre stellari?».

«No» ho fatto con il capo.

«Peccato. Devi guardarlo. A me, mamma e papà prima non me l’hanno permesso, poi però papà mi ha portato al cine. Che film!».

Martin mi ha raccontato per bene tutta la trama.

Quando sono arrivato alla porta e da tempo non stavo più seguendo Martin, che ora stava parlando di tutt’altro, ho sentito papà dire che era preoccupato. «Già prima mi preoccupava. Non è un segreto che il vecchio da tempo non governava il Paese. Lo facevano altri, i generali e Jovanka. Ma adesso che non c’è, be’, adesso non sarà semplice. Il vecchio metteva ordine. Nessuno osava nemmeno fiatare».

«Può essere che ci occuperanno i russi» ha detto lo zio.

«Finiscila di spaventare» ha detto papà, «quali russi! Non ci sarà nessun russo».

«E l’Ungheria e la Cecoslovacchia?» non la smetteva lo zio. «Là sono arrivati con i carri armati».

«Gli americani non gli permetterebbero mai di superare il confine jugoslavo» ha detto papà. «Se succedesse, sarebbero di colpo sul loro confine».

«Vedi» ha sospirato lo zio, «il vecchio sapeva navigare tra gli uni e gli altri. Ma adesso è cambiato tutto. Lui non c’è, fine. Speriamo solo che non venga la guerra».

«Pensi che possa venire la guerra?» ho chiesto a papà quando lo zio, la zia e Martin, dopo le notizie della sera, se ne sono andati.

«Non preoccuparti». Papà mi ha accarezzato la testa. «Non ci sarà nessuna guerra. Avete sentito quello che stavamo dicendo?».

«No» ho scrollato il capo. «Ho sentito qualcosa».

«Hai sentito qualcosa» ha sorriso papà. «Ascolta» mi ha messo a sedere, «ricordati di questo: Tito era il presidente della nazione. E il maresciallo…».

Ora sono in classe e guardo la scritta bianca sulla lavagna verde: Il nostro Tito è morto. Sono seduto vicino a Rok, che sulle guance ha vari cerotti. Mi racconta dell’iniezione e dei punti. Gli chiedo se gli ha fatto male.

«Ovvio che mi ha fatto male» ha annuito. «Ma non tanto. Ho stretto i denti. Tra una settimana mi tolgono i punti».

«Super!». Sono entusiasta. «Se vorrai far parte dei pirati, ti prenderanno già da subito. Solo che non dovrai dire loro che ti sei ferito su una recinzione. Devi dire che sono graffi da combattimento».

«Dirò questo» annuisce Rok. Poi restiamo zitti, perché in classe entra la maestra.

Nella mano destra tiene un fazzoletto con cui si asciuga gli occhi lacrimanti, nella sinistra un grosso libro dalla copertina rossa con il titolo stampato a caratteri dorati. La maestra Nada sta piangendo. Anche alcune compagne piangono, e tra loro Ana. La guardo e non capisco. Tito era il nostro presidente, va bene, ma non era nostro nonno o nostra nonna, uno zio o una zia. Perché allora piangono?

La maestra inspira profondamente alcune volte, poi con voce tremante dice che oggi è un giorno molto triste.

«Parleremo del compagno Tito, della sua vita e di cosa ha fatto. Ma molte cose le saprete già». Ci guarda. «Bene» apre il libro, «probabilmente ancora non tutto. Se sentite qualcosa che sapete già, va bene lo stesso, perché ve lo ricorderete meglio. È importante che ricordiate, è importante che sappiate. Per oggi e per domani». Poi inizia a raccontare del ragazzino della Sotla[1].

Durante l’intervallo rimaniamo ai banchi, anche la maestra rimane in classe.

La lasciamo solo quando scocca l’ora del pranzo. Ci allineiamo lungo la parete, una fila che si snoda fino agli ultimi banchi. Aspettiamo che la maestra si alzi, vada alla porta, la apra e ci lasci uscire. Diversamente dagli altri giorni, non ci accalchiamo, non corriamo e non ci superiamo, ma camminiamo uno accanto all’altro.

Quando Rok e io ci sediamo a tavola, lui mi urta con il gomito e fa un cenno verso il ritratto di Tito, appeso alto alla parete.

«Devo raccontarti una cosa» dice. «Ma è un segreto».

«Ah, sì?». Lo guardo incuriosito.

«Ascolta». Rok si china su di me. «Tito continua a guardarmi. Non importa dove mi siedo, mi fissa continuamente. Posso andare in un angolo della sala da pranzo oppure in un altro. Solo non so, adesso che è morto, se continua a vedere».

Sollevo lentamente lo sguardo e fisso il ritratto di Tito. La sua foto è appesa in ogni classe. Nella nostra c’è solo il viso. Nella sala di musica Tito è seduto al pianoforte. Nel laboratorio di tecnica è accanto a un macchinario. Nel corridoio, dove c’è il gabinetto di storia, sono appese delle fotografie dei tempi della guerra. Quella che mi ricordo meglio è Tito con un cane. Il cane si chiamava Luks e aveva salvato la vita a Tito. Sto in silenzio alcuni istanti, poi a Rok rispondo che lo so. Con Peter già tempo prima ci eravamo resi conto che Tito ci guardava. Mi sposto un po’ a destra, poi a sinistra, per controllare se è ancora così. Tito mi guarda. Il suo viso rimane inalterato, mentre gli occhi fissano direttamente me. Rok afferra il cucchiaio e inizia a mangiare la zuppa. Continua però a guardarmi: «Andremo anche nelle altre classi. Cercheremo tutte le foto e verificheremo se anche in quelle ci guarda». Portiamo i vassoi, con i piatti quasi intatti, fino al banco. Fosse un giorno comune, lì ci aspetterebbe la maestra Nada. Ci chiederebbe perché non abbiamo mangiato quasi niente e ci direbbe che nel mondo ci sono tante persone affamate e solo per loro dovremmo dimostrare più rispetto nei confronti del cibo. Ma oggi è un giorno particolare. Al banco non c’è nessuno dei maestri, perciò lasciamo lì senza problemi i vassoi e corriamo lungo il corridoio verso le aule.

Rok apre con cautela le porte delle classi prime e seconde. Le aule sono quasi vuote, gli alunni sono a pranzo. Se c’è qualcuno in classe chiude velocemente la porta, mentre nelle aule vuote entriamo come se fossero la nostra. Sul momento rimaniamo cauti, poi però ci muoviamo senza un filo di paura.

In ogni aula prima controlliamo quale fotografia sta appesa sopra la lavagna. Se non è uguale alle precedenti, ci collochiamo dritti di fronte a essa. Poi ci muoviamo a destra e a sinistra, arrivando alla finestra, alle pareti e all’armadio. Ci accorgiamo che Tito ci osserva sempre. Anche se ci accovacciamo dietro ai banchi e alle sedie, sa dove stiamo. Non appena riappariamo, ci guarda.

Quando siamo nella nostra aula, facciamo lo stesso che nelle precedenti. Poi vengo folgorato da un’idea: ognuno di noi deve andare a un’estremità dell’aula.

«Voglio proprio vedere chi guarderà, se facciamo così!».

«È vero!». Rok è entusiasta. Ci mettiamo al centro dell’aula, poi Rok inizia a spostarsi verso la finestra, io verso la porta.

«Continua a guardarmi!» dice Rok ad alta voce.

«Anche me!».

Quando sono vicino alla porta, questa improvvisamente si apre.

«Cosa fai qui?» mi chiede la maestra Nada. Rabbrividisco e scuoto la testa.

«Niente» rispondo, e mi sposto al mio banco.

«Venite qui» dice quando raggiunge la cattedra. Sento brividi in tutto il corpo. Ho la sensazione che quello che abbiamo fatto sia sbagliato e che la maestra sappia tutto. Ho paura che ci scriva una nota per i genitori nel libretto o, ancora peggio, che chieda che la mamma o il papà o ancora meglio tutti e due vadano a parlare con lei. Con passi brevi mi dirigo alla cattedra, Rok invece è già alla lavagna, come se si aspettasse un elogio.

«Bene, cosa pensate del maresciallo Tito?» ci chiede la maestra.

«Ci guarda sempre» la sparo.

«Come?». La maestra è sorpresa.

«Qualsiasi cosa facciamo, sempre ci osserva e tutto vede» chiarisco.

«Cosa vuoi dire?». La donna aggrotta la fronte.

«Venga» faccio due passi indietro e guardo la fotografia di Tito. «Adesso mi sta guardando. E se mi metto vicino alla finestra, continua a guardarmi. E se corro all’altro lato della stanza, mi guarda ancora!».

«Vedi» sorride la maestra Nada, «per questo ciò che fai è importante. Per questo è importante come ti comporti. Devi essere un pioniere, sempre d’esempio e buon compagno! Perché Tito ti guarda. Tutti ci guarda. Tutto vede».

Il pomeriggio mi siedo con mamma e papà davanti al televisore. Guardiamo il treno blu che trasporta il presidente defunto da Lubiana a Belgrado, dove lo sotterreranno. Lungo la tratta ci sono migliaia di persone. La telecamera a volte si ferma sui volti del soldato, del poliziotto, dell’operaia, dell’operaio che in questo giorno non lavorano, ma stanno lungo i binari e attendono che passi il treno per poter salutare per l’ultima volta il maresciallo che ha unito i popoli jugoslavi e li ha guidati sulla strada della liberazione dall’occupazione nazista e fascista, accompagnandoci verso il futuro luminoso che è durato fino a quel terribile momento, domenica, alle tre e quattro minuti, quando il suo grande cuore si è fermato. Sullo schermo le donne si asciugano gli occhi, gli uomini guardano cupamente, sui volti di tantissimi scorrono le lacrime.

«Tito ci guarda tutti» dico.

«Come?». Papà si volta sorpreso verso di me.

«Tito ci guarda tutti» ripeto.

«Da dove l’hai presa questa?» chiede. Così gli racconto di come io e Rok siamo andati di classe in classe, e alla fine anche della maestra Nada, che ci ha dato ragione. Tito ci guarda.

fonte https://wordpress.com/read/feeds/25870481/posts/4407535467

Pubblicato in: friuli, letteratura

CARLO SGORLON

Carlo Sgorlon (Cassacco26 luglio1930 – Udine25 dicembre2009) è stato uno scrittore e insegnanteitaliano.

I suoi romanzi hanno per tema specialmente la vita contadina friulana con i suoi miti, le sue leggende e la sua religiosità, il dramma delle guerre mondiali e delle foibe, le storie degli emigrati, le difficili convivenze delle varie etnie linguistiche; spesso proprio il passato e le radici rappresentano per Sgorlon gli unici elementi risananti del mondo.Secondo di cinque figli, nacque a Cassacco, un piccolo centro a pochi chilometri da Udine, da Antonio (sarto) e Livia (maestra elementare). Trascorse il periodo della giovinezza prevalentemente in campagna, assimilando la cultura del Friuli rurale, che tanta parte rappresenterà nella sua produzione letteraria.

Dopo un inizio di studi incostante, compiuti i diciotto anni si iscrisse all’università di Pisa e venne anche ammesso alla Scuola Normale Superiore: si laureò in Lettere con una tesi su Franz Kafka. Poi si trasferì in Germania per la specializzazione, che conseguì a Monaco di Baviera.
Subito dopo ebbe inizio la sua attività di insegnante di Lettere alla scuola secondaria e parallelamente quella di scrittore.
Sposato con Edda Agarinis, Sgorlon si trasferì ad Udine dove avrebbe poi vissuto per tutto il resto della propria vita.

Si spense il giorno di Natale del 2009. Riposa nel cimitero di Raspano, frazione del suo comune di nascita il quale, nel 2011, gli ha dedicato un concorso fotografico intitolato “Lo sguardo di Carlo”. La Agarinis ha promosso eventi e iniziative in memoria del marito sino alla sua morte, avvenuta a Palmanova il 12 gennaio 2021

La figura di Sgorlon è diversa da quella di qualsiasi autore italiano: era un narratore vero di storie reali in un mondo fantastico, un narratore di vicende fantastiche in una struttura reale. Il tutto condito da elementi storici e magici che convivono come diversi livelli di una stessa provincia.

Poeta dell’equilibrio, dell’intreccio con la storia e con l’ambiente in cui si innesta il ciclo delle sue esperienze, su tutta la sua attività hanno lasciato un segno profondo gli studi irregolari e gli stimoli del nonno, maestro elementare in pensione, a porsi traguardi più ambiziosi, così come le storie, i racconti tradizionali, le fiabe narrate dalla gente del suo piccolo paese contadino. I temi di fantasia e saggezza popolare si mescolano all’eredità di autori come DanteAriosto e Petrarca che macerano in quello che lo stesso autore definisce come una fase culturale europea nel periodo di istruzione superiore.

Nasce, per primo, il romanzo Il vento nel vigneto (1960), che verrà riscritto in lingua friulana con il titolo Prime di sere (1971); il tema esistenziale è ispirato al mondo contadino e si racconta il faticoso reinserimento di un ergastolano graziato nel paese natio.

Con i successivi romanzi lo scrittore muta il suo registro narrativo: La poltrona (1968), La notte del ragno mannaro (1970) e La luna color ametista (1972) si impongono all’attenzione della critica per i ritmi nevrotici ed affannosi dei personaggi che stentano a realizzarsi nella vita, cedendo via via a storie sempre più corali. Ne La poltrona si narra di un mondo chiuso, sterile caratterizzato da un continuo disadattamento; ne La notte del ragno mannaro (1970) si apre il paesaggio, in cui si percepisce l’inquietudine di Walter nella spasmodica ricerca del padre e della donna amata in un sogno ossessivo e reale ambientato in una Udine magica che rivela i segreti di antiche storie. Ne La luna color ametista Rabal rivitalizza un paesino misterioso e teso tra sogno e grigiore ma solo per il periodo della sua visita; questo è il romanzo riconosciuto come spartiacque della narrativa di Sgorlon, lo scritto che lascia il cupo solipsismo della precedente produzione per raggiungere un patos fantastico-corale nella sua opera successiva.

Da questo cambiamento nasce il fortunato Il trono di legno, romanzo di successo (Premio Campiello 1973)[2], storia di un narratore di vicende fantastiche che non sa ancora di essere l’erede di una cultura solo assopita e non cancellata. Nel 1975 vede la luce anche La Regina di Saba, ritratto di una misteriosa figura di donna a tutto tondo che si confronta con i cambiamenti del tempo, capace di salvarsi e di salvare grazie alla forza dell’amore eterno. Gli dei torneranno (1977), narrazione epicizzata della civiltà contadina del Friuli che si scontra con le nuove idee per scoprire, infine, che la storia gira in cerchio e gli dei torneranno solo se gli uomini sapranno salvare la loro cultura dall’attacco della civiltà massificata attraverso il dono singolare del ben parlare.

La carrozza di rame (1979), la saga di una famiglia di piccoli proprietari terrieri inserita nel periodo del terremoto del ’76, evento foriero di nuovi assetti nella famiglia De Odorico, completa la trilogia iniziata con Il trono di legno.

La sua vita trascorre quieta, tra l’insegnamento di Italiano e Storia negli Istituti tecnici e la scrittura, tra la città e la casa di campagna dove lo scrittore, assai fiero delle proprie svariate abilità, sveste i panni dell’artista e dello studioso e indossa quelli dell’agricoltore e dell’artigiano. Nasce in questo periodo La contrada (1981) in cui si racconta la vita di periferia di un gruppo di amici ed in cui si sviluppa il tema della delusione dell’uomo moderno. Segue La conchiglia di Anataj (Premio Campiello, 1983[2]) in cui si esprime il concetto del recupero delle origini e del legame con le proprie radici solo nel momento dell’allontanamento dalla realtà: Valeriano, infatti, rimane in Siberia a ricordare la sua terra, il Friuli. Quest’opera è da molti critici ritenuto il capolavoro dello scrittore.

L’armata dei fiumi perduti (1983), vincitore del Premio Strega nel 1985)[3] ispirato alle vicende poco note della duplice tragedia del popolo cosacco, i Kazak, a cui: «l’impassibile spietatezza della Storia aveva sottratto per sempre la possibilità di avere una patria» e del popolo friulano, la cui terra venne regalata ai primi come bottino di guerra dall’invasore tedesco. Il libro avrà ben 25 ristampe. Il quarto re mago (1986), insieme di racconti da cui si evincono le principali tesi della poetica Sgorloniana (come nel caso dell’eterno peregrinare di Joska la rossa o del disfacimento del tempo alla ricerca di qualcosa che si possiede già). Seguono I sette veli (1986), versione friulana Il DolfinL’ultima valle (1987) in cui si mescola sapientemente l’elemento favolistico a quello della vita di tutti i giorni narrando della tragedia del Vajont del 1963 e evidenziando le interconnessioni magiche da cui si origina tutta la poetica dell’autore. Il calderas (Premio Napoli, 1988) in cui la vita del piccolo zingaro è nuova metafora della ricerca di radici perdute, questa volta per colpa della guerra.

La fontana di Lorena (Premio Basilicata, 1990) in cui si racconta la storia della famiglia Gortan che vive attorno alla figura magica di Eva, amica di un grande pittore, che con la sua magia creerà l’illusione utile a salvare se stessa e gli altri oltre la magica fonte del bosco. La tribù (1990) è la storia della famiglia di Giovanni, brigadiere di Foràns, Martina ed i loro quattro figli. Il rispetto della legge morale è l’unica strada per dare ordine alle passioni umane; ma l’illusione del benessere sfocia ai confini del lecito e dell’illecito. I valori crollano miseramente e, pur di raggiungere gli illusori paradisi, Diego, uno dei quattro figli, sconterà il suo delitto di sangue nel sangue, come tragico sacrificio agli dei crudeli di città. L’apice del dolore, tuttavia, riannoderà i vincoli morali ridando senso al destino dei suoi componenti. Vi sono, poi, La foiba grande (1992) che custodisce i segreti di coloro che vengono presi per essere portati chissà dove durante il periodo della guerra, cui segue Il regno dell’uomo (1994). Al filone che rievoca vicende non approfondite della storia italiana appartiene anche La malga di Sîr (1997) incentrato sull’eccidio di Porzûs reso famoso perché nel 1945 i partigiani comunisti uccisero un gruppo di partigiani appartenenti alla brigata Osoppo (tra i caduti anche il fratello di Pier Paolo Pasolini, Guido Alberto).

Nasce, quindi, Il processo di Tolosa (1998), storia surreale della vita di un ragazzo legato al mistero di Lazzaro in Francia, seguito da Il filo di seta (1999) in cui si racconta la vicenda incredibile degli itinerari di Odorico da Pordenone, viaggiatore paragonabile solo a Marco Polo, che ha affascinato per il suo modo di confrontarsi con la diversità e del quale Sgorlon ha scritto, in versione romanzata, in una rivisitazione della sua vita. Attraverso un lungo percorso arriviamo al prossimo romanzo, La tredicesima notte (2001) in cui nel favoloso mondo di Monterosso si snoda la vicenda di Veronica, nuova figura di donna in connessione con il mondo misterioso che abbiamo dimenticato, la quale torna ogni tre generazioni per rendere possibile un destino d’amore in un paese dove persino un famoso frate di Pietrelcina – Padre Pio – compare. È del 2003, L’uomo di Praga, in cui il cinema arriva a Naularo per far rivivere i sogni di tutti e le alterne vicende del protagonista Alvar, stupiscono e trasportano in un mondo fatato. Le sorelle boreali, edito nel 2004, illustra la creazione di un mondo felice da parte di cinque sorelle che ritrovano una nuova vita nella villa della bisnonna. Ognuna delle protagoniste per difendere questa esistenza dovrà passare in un buio catartico modificando poco a poco il proprio destino. L’ultimo lavoro, Il velo di Maya del 2006 intreccia elementi filosofici, musicali ed erotici in un viaggio teso come su una lama di rasoio del personaggio Jacopo D’Artega.

L’ultima fatica letteraria del grande scrittore viene pubblicata a dicembre del 2008 dalla Morganti editori, con il titolo La penna d’oro. Si tratta di un’autobiografia. Carlo Sgorlon ha deciso di farsi portavoce in prima persona della sua vita e della sua poetica. Nel raccontarsi con sincerità ma con un pizzico di costruttiva polemica e disincanto, lo scrittore affronta i ricordi della propria vita personale e professionale come se osservasse un altro se stesso dal balcone della sua casa friulana. Il risultato di questo proiettarsi al di fuori lo trasforma nel protagonista di un’avvincente storia privata. Ma di che si tratta? Ancora una volta è la storia di un uomo estraneo ai luoghi e alle mode, che si affranca dal mondo, pur senza mai perderlo di vista, per cercare la propria patria. Il narratore si racconta con la medesima propensione fabulatoria che da sempre lo caratterizza, proponendo al lettore un romanzo esistenziale, quello di un uomo che si sofferma sulla propria vita facendone il bilancio e ribadendo la radicata convinzione che l’uomo possa percorrere la propria vita su due piani di esistenza paralleli: quello della realtà e quello del fantastico. La penna d’oro, non è una semplice autobiografia dello scrittore, è anche un attestato d’amore nei riguardi della sua terra d’origine, delle sue genti e tradizioni. Anche la penna d’oro, dono ricevuto nell’infanzia, diventa un mitico oggetto sparito chissà dove, che da sempre influenza il destino dell’uomo e dello scrittore.

I protagonisti dei suoi romanzi

La modernità del protagonista sgorloniano è evidente nell’incarnazione delle difficoltà, nell’autenticità, nell’affettività, nella socialità; è un soggetto reso ansioso dall’evoluzione della società rurale in quella industriale, appare simile al tipico modello d’uomo nel comune sentire di fronte alla rivoluzione tecnologica. Nel personaggio sgorloniano si evidenzia la mancanza di una precisa identità, nella quale ritorna, sfumata, la figura paterna e, anche, più eccessiva e prolungata, quella materna; si riscontra, inoltre, la mancanza di quell'”io collettivo” che sembrava unire la società contadina contro le asperità della vita nel superamento dell’uniformità della industrializzazione nella eradicazione dalla regione di nascita.

I protagonisti sgorloniani appartengono ad una cultura di tipo decadente, sono irrazionali e spesso vivono in una realtà sognante tenendo sempre presente un sentimento di amore/repulsione per la propria terra. All’assenza di eventi esteriori fa da contrappeso il tramestio dei personaggi, mossi dall’autore come burattini, i quali hanno un ruolo preciso in uno sfondo a metà tra la favola e la cruda realtà storica, attraverso la metafora, in un luogo sospeso tra il fantastico e il mentale dove tematiche religiose scientifiche e filosofiche si confrontano per la ricerca di valori per cui sopravvivere: «In realtà, io amo soprattutto raccontare delle storie, in un tempo e in una civiltà come la nostra in cui sembra che gli scrittori abbiano per lo più perduto la dimensione epica e il gusto del narrare».

L’acqua

A creare una compensazione, quasi fosse essa stessa un personaggio, nella narrativa sgorloniana interviene l’elemento dell’acqua. La funzione purificante e pacificante dell’animo umano è legata all’elemento liquido come se questo unisse in tempi diversi le sensazioni delle donne. Sono donne che si lavano via il terrore della guerra con un lungo bagno, rimanendo in contatto con l’elemento magico come nel caso di Marta ne L’armata dei fiumi perduti, tornano al passato e vi rimangono in contatto tramite una fonte nel bosco come nel caso de La fontana di Lorena o dimenticano l’amore illusorio del loro recente passato come nel caso di Veronica ne La tredicesima notte.

L’acqua è una sorta di specchio purificatorio, la cui prerogativa sembra essere percepita solo dalle donne.

Le donne

Le donne di Sgorlon sono la radice forte che permette all’albero ferito di rifiorire. Sono personaggi in grado di rivitalizzare la vita di un paese sonnacchioso come nel caso di Rabal, ne La luna color ametista. Custodiscono le parti da sanare, sono motore incessante della storia e sono quelle che portano spesso sulle proprie spalle il peso di una civiltà che cambia. L’abbandono della società contadina, ha aumentato la loro fatica, ma ha permesso anche di conservare all’interno dei loro animi la madre a cui ritornare. Le donne di Sgorlon non vogliono affrontare tutto e tutti a muso duro, sanno andare incontro a ciò che la vita richiede, ma concepiscono il completamento della loro esistenza solo nella condivisione della stessa con un’altra persona.

I personaggi femminili di Sgorlon sanno guardare al mondo moderno e viverci, ma a volte, e solo per periodi limitati, nonostante la loro sensibilità, non riescono a vedere chiaramente, confuse dai loro sogni. Fortissimo in queste figure è l’elemento magico che rende surreale persino le storie che sembrano cronaca della realtà, donando loro una comprensione delle connessioni tra essere umano e gaia, la terra, irrinunciabile. Marta, con la sua gioia di vivere inesauribile, sana le ferite di un mondo che sembra impazzito e custodisce la speranza dei sogni persino nei momenti più duri, infondendo la vita quando tutto sembra perduto. Eva, de La fontana di Lorena, è un grande personaggio, costruito con un’intensità vibrante di donna pratica e maga che incarna la sostanza della protettrice della terra: è l’ultima eroina guerriera di una divinità insita nella natura che alla fine sa che nei colori e nel ritorno in sé c’è quanto serve a salvare il proprio futuro.

La provincia

«Comincerò col dire che io sono uno di quegli scrittori fortunati, secondo la celebre frase di Balzac, che hanno una provincia da raccontare. Fortunati perché possiedono delle radici, ed hanno alle spalle una cultura, una storia, una tradizione, un popolo, nei quali si riconoscono, dentro i quali riescono a rintracciare i lineamenti della propria identità. Fortunati perché sanno chi sono, possiedono un habitat, una collocazione precisa nella infinita varietà del mondo reale».

Così Carlo Sgorlon si descrive nella conferenza del 1982 (Il Friuli nella mia narrativa) inquadrando la propria identità, chiave di volta della sua concezione di vivere/scrivere. Tra il livello profondo del soggetto/uomo ed il livello di scrittura con i modelli culturali si colloca in maniera filtrante la cultura locale tale da renderla comprimaria rispetto agli altri elementi in un concezione solistica legata ai topoi accumulati nel corso dell’intera esistenza. Un sentimento che si può leggere anche ne L’armata dei fiumi perduti in cui Urvàn pensa che «…forse bisognava restare lassù, non abbandonare né la steppa né il fiume. Qualunque colpo del destino andava sopportato là, nella loro terra».

La battaglia per la conservazione delle radici e per la restituzione dei luoghi alla loro vocazione millenaria appare come una metafora e insieme una ragione universale e che unisce i popoli legati alle proprie autentiche storie e tradizioni. «Per Veronica, (La tredicesima notte), Monterosso era una parola chiave. Pronunciarla, o sentirla pronunciare, voleva dire tante cose, a volte difficile da cogliere anche per lei». Carlo Sgorlon esalta l’irrealtà della realtà del Friuli perché, se si parla di questa terra, non si sa mai se si tratti di Italia, Austria o di un paese Slavo, culture che hanno lasciato una impronta nell’identità che spesso viene trascurata dai “dominatori di turno”, ma fortemente radicata nel suo popolo.

Il paesaggio friulano è l’ancora a cui è possibile aggrapparsi per recuperare la speranza di salvezza e di redenzione nell’apocalisse del presente in cui sembra essere sparito l’amore per le proprie origini. Sgorlon è un aedo della sua terra, a volte la dipinge come un luogo in cui avvengono fatti luttuosi per la popolazione, come nel caso del romanzo La foiba grande o de La tribù e come un mondo incantato sospeso in un dimensione magica tale da creare un filo ideale tra le sue storie e il mondo incantato di Garcia Marquez: lo stesso Sgorlon friulano ha ammesso che, seppur involontariamente, nei suoi romanzi c’è anche un po’ di Marquez, quello che li accomuna è il sostrato di movimento.

«Mi affido alla mia capacità di primitivo di rimitizzare il mondo, per quanto i miti e le fiabe siano stati esorcizzati da secoli dalla scienza e dalla tecnologia…» Ecco il filo a cui Carlo Sgorlon rimane fedele anche nelle sue opere, particolarmente in quest’ultimo romanzo, La tredicesima notte, o anche ne La fontana di Lorena, che conferma la natura favolistica dello scrittore friulano senza venir meno a quel credo di “tellurica sacralità”, che è presente in lui da sempre, e più visibilmente nel L’Ultima valle (1987).

La Storia

Nei libri in cui i protagonisti hanno a che fare con la Storia, particolarmente se si tratta della guerra e dei suoi effetti, essa assume in Sgorlon un carattere di forza cosmica, flusso impetuoso ed ineluttabile, dotato di propria autonomia, in grado di travolgere chiunque si trovi sul suo corso, e da cui è inutile ogni tentativo di opporsi. L’unica speranza per sottrarsi alle sue conseguenze può essere un rifugio o la fuga, di solito sotto la protezione di una delle donne che nei libri di Sgorlon incarnano la saggezza immutabile della terra, come Marta ne L’armata dei fiumi perduti, o Marianna ne La malga di Sîr.

La parola

«Aveva letto in un libro che la parola è ormai consumata e logora, troppo sfruttata dall’uso, e che non può più essere adoperata come un tempo. Oggi chi l’ha fatto ha suscitato una smorfia d’ilarità all’angolo della bocca degli intenditori, o l’infastidito sbadiglio della noia. Adesso la parola è sofisticata, manipolata, slogata e contorta, per poter essere resa appetibile ai palati, ormai desiderosi dello strano e dell’inusitato. Viene elaborata con ricette artificiali, drogata con spezie esotiche fino a cambiarne l’antico carattere e a renderla incomprensibile», scrive Sgorlon.

«Io mi rivolgo a quei lettori che hanno il gusto di leggere storie ben fatte, e anche fornite di un gruzzolo di ciò che un tempo si chiamava “poesia”, di cui oggi si diffida. Io possiedo un forte istinto narrativo, e a quello mi abbandono. È una specie di bussola incorporata nel mio inconscio. Seguo i grandi archetipi del narrare. Non trovo difficoltà a realizzare questo tipo di narrativa, se non di natura psicologica. So infatti di andare contro il gusto corrente e contro la cultura egemone. So di essere il solo, o quasi. Però c’è anche una certa soddisfazione a sapere di non essere uno che salta sul cocchio del vincitore, che in Italia tutti inseguono, ma sul quale non tutti riescono a salire.»

I romanzi postumi e le iniziative commemorative

Nel 2010 ci fu la pubblicazione dei romanzi postumi: Il Circolo Swedenborg e Ombris tal infinît (quest’ultimo in lingua friulana).

Il 23 febbraio 2014 il Comune di Vajont gli ha dedicato la biblioteca civica per aver narrato della omonima tragedia del 1963 nel romanzo L’ultima valle (1987).

Il 28 novembre 2019 è stato pubblicato il romanzo postumo Allarme sul Neckar. L’opera fu scritta nel 2000 ma è rimasta inedita per volontà dello stesso autore dopo un tentativo di pubblicazione sotto falso nome compiuto qualche anno prima della sua morte. L’esperimento venne portato a termine con la collaborazione di uno dei suoi legali, l’avvocato Fabiano Filippin. Quest’ultimo, fingendosi l’agente di uno scrittore in erba, propose il testo a svariate case editrici ma lo stesso venne sistematicamente restituito intonso. Sgorlon voleva capire quante occasioni di effettiva pubblicazione avessero i giovani di talento non ancora conosciuti al grande pubblico. Il legale e la vedova hanno dato alle stampe l’opera nell’imminenza del decimo anniversario della scomparsa. Il romanzo è distribuito dalla casa editrice udinese Gaspari in collaborazione con il quotidiano friulano Messaggero Veneto. La presentazione ufficiale è avvenuta il 3 dicembre 2019 in municipio a Udine alla presenza della vedova dello scrittore.

da wikipedia

Pubblicato in: friuli, letteratura

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